giovedì 9 dicembre 2010

Così è, se vi pare (1).

La casualità, la mia divinità preferita. Molto più intrigante ed affascinante di Afrodite, ancora più divertente di Dioniso. La casualità e le sue rivelazioni improvvise che lasciano senza parole demolendo il libero arbitrio. Le magiche correlazioni fra musica, libri, luoghi e anime umane che da anni sembrano susseguirsi durante l’esistenza apparentemente senza un senso logico. La casualità, quando tutto intorno sembra navigare a vista come un ubriaco che non può più sorreggersi e cerca un palo dove appoggiare la testa, arriva da me come l’ultimo bicchiere di whiskey che non avrei dovuto bere e mi stordisce e mi invita a domandarmi che diavolo di connessione ci potrà mai essere fra la mia sensibilità intellettuale e quella di altre anime, artisti e vagabondi, puttane, amici, antichi monaci tibetani. La casualità, cinica stronza, dolce amante e ambrosia inebriante, sembra scegliere con cura il momento in cui far piombare nella mia vita un libro, una musica, un’altra anima sensibile con il preciso intento di lasciarmi senza parole di fronte all’esistenza.

L’esistenza.
Vivere da mesi come in una sorta bolla di sapone, un torpore fatto di domande senza risposte, di noia e di nulla, di vuoto esistenziale terrificante, di silenzio improduttivo. Credere, per un eccesso di vanità, di essere il solo a provare questo vuoto destabilizzante, questo doping emotivo. Poi entrare in una libreria dell’aereoporto di Roma di ritorno da Istanbul, terra dove gli opposti che regolano il mondo convivono in armonia e scontrarsi contro il duro muro della propria ignoranza. Il caso, il fato, mi mise fra le mani “La Nausea” di Sartre. Fu così che, leggendo quelle pagine dure, trovai qualcuno che riusciva a dare un’ espressione verbale ai miei tormenti, capii che la casualità che mi fece tuffare le mani in quello scaffale di libreria era si cinica, perchè aveva scelto il momento adatto ma agiva a fin di bene. Parafrasando Italo Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (che, anche qui per puro caso avevo con me in valigia,) bisognava interpretare questa ennesima coincidenza come un messaggio che il mondo voleva offrirmi per comunicarmi qualcosa. Cosa poi volesse comunicare in quel momento non mi è ancora dato saperlo. Forse voleva dirmi che la vita un senso ce l’ha. Deve averlo cazzo. Mi accadde la stessa cosa quando ascoltai i Television e John Coltrane. Trascesi. Risi da solo.

Avvertivo gli stessi turbamenti di Roquetin ma non sarei mai riuscito ad esprimerli come Sartre 80 anni fa. La casualità, spinta dal suo istinto goliardico, dal suo immaturo sarcasmo, venne a farmi visita. Sia per non farmi sentire solo sia per far riapprodare il mio ego verso i lidi tranquilli della modestia, dubbiosa e compassionevole. E per farmi sentire sempre più ad un passo dalla follia. Una edonistica e dolcissima infermità.

Stesso discorso vale per Philip Roth. La mia mente era da settimane coinvolta in una tempesta emozionale. Nella testa come in un frullatore si agitavano i turbamenti dovuti al senso di incomunicabilità che sentivo con gli altri esseri umani, l’impossibilità di capirsi a fondo. Io non capivo loro, loro non capivano me. Niente di trascendente. Sono solo le storie di vita che ognuno di noi porta dietro le proprie spalle e che ignoriamo a vicenda, che ci faranno sempre essere delle isole lontane l’una dall’altra. Animali individualisti e soli le cui alienazioni non coincideranno mai, per mancanza di volontà o per egoismo o perchè si è gia troppo stanchi delle proprie sventure per trovare la compassione di ascoltarne delle altre, perchè penseremo sempre di essere i depositari della verità, gli unici ad aver veramente vissuto “esperienze” significative e grandi “sofferenze”, perchè saremo sempre degli insoddisfatti . Perchè abbiamo paura del giudizio avverso, abbiamo paura dell’ anticonforme alle regole pseudo morali (cosa è la morale poi, non si sa), per terrore all’isolamento. La superficialità e la comodità che spesso regolano le relazioni fra le persone erano il nuovo tema che faceva da sfondo ai miei malesseri esistenziali.

Ci si ferma sempre davanti alla superficie senza provare a fare un passo in più e si giudica ciò che si vede a prima vista, tralasciando tutti i processi e i contesti ed il cammino che hanno portato ogni essere umano ad essere quello che è. Ci si limita al fallace giudizio dell’impressione mossi dallo spirito di conformismo, sbarazzandoci di tutte le discriminanti e le infinite possibilità, altrettanto o no casuali che definiscono ognuno di noi. È meglio avere un’idea accettata dalla comunità, è meglio avere amici fittizi piuttosto che essere soli. Ci si affida a giudizi affrettati, alle proiezioni dei nostri egoismi e della nostra limitata visione della realtà. Atterriti dalla paura di non essere uguali e dunque soli, convinti che una visione più approfondita delle cose che ci metta di fronte a noi stessi, ci possa allontanare dai porti sicuri della uniformità. L’uomo quando pensa è solo e la solitudine atterrisce. I (pre)giudizi rispondono solo al desiderio di volerci sempre spiegare tutto secondo il nostro punto di vista, il nostro Io. L’inutilità della comunicazione dovuto al fatto che quest’ultima sia viziata e corrotta dalle nostre “infallibili” supposizioni.
Ed io mi ero rotto le palle di essere un animale sociale utile solo a sè stesso.

Quando i miei tormenti arrivarono al culmine e la mia arrogante vanità cominciava nuovamente a mostrare il petto, non contenta delle sue continue sconfitte inflitte dalla ragione e dal caso, mentre vagavo per una libreria le mie mani si poggiarono su “Pastorale Americana”. Mi si aprì nuovamente un mondo che già conoscevo ma che non sapevo bene come spiegare. Di nuovo mi si regalò il piacere di non sentirmi solo.
Ho attraversato tante fasi esistenziali e ho indossato tante maschere sociali prefissate. Mi sono sentito per tanto tempo un nichilista senza mai sapere bene cosa questa parola significasse. Il fato, vigile come sempre, conoscendo al mia passione per il buon vino, mi fece incontrare Veronelli, dolcissimo anarchico, che mi aprì le porte verso il Socialismo Utopista, verso “I Demoni” dostoevskijani e poi, finalmente il maestro, Ivan Turgenev. “In Padri e Figli” era spiegato tutto, dalla mia inconsapevole critica al positivismo fino alla relazione con mio padre.
Ancora una volta mi strinsi nelle spalle, sulle mie labbra si dipinse un ghigno di misteriosa soddisfazione e mi rassegnai a dichiararmi sconfitto nuovamente, pur trovandomi in ottima compagnia.
Quando avvengono queste casualità, non posso fare altro che sgranare gli occhi e gridare “Wow!”. Mi sento tanto vivo in questi momenti.

Altre ossessioni:il silenzio e la ciclicità. Il silenzio alla base del Big Bang, il silenzio come origine del tutto, il silenzio come preludio ad una detonazione imminente, il silenzio fra le note che è lo spazio fisico dove l’anima risiede, il silenzio come discriminante essenziale affinchè vi sia la musica, il ritmo del silenzio che non riusciamo più ad ascoltare. I silenzi che si creano su un palco fra muscisti, quando il trombettista ha finito il suo assolo e guarda per un attimo il sassofonista che sta per attaccare il suo. Quella sospensione mistica che li fa galleggiare sospesi a mezz’aria fra pentagrammi e sincopi e quel silenzio teso che si crea. Il silenzio come vera forma di comunicazione. Il silenzio e la ciclicità delle cose umane. L’infinito ripetersi delle vicende, l’incapacità di apprendere da questa verità, il movimento circolare che è alla base dell’universo, il panta rei ma anche il “tutto torna”. I pilastri di una morale che credevo solo mia e invece è vecchia come il mondo. La casualità che lega persone, libri e musiche, le relazioni circolari che si creano fra loro, le orbite ellittiche, le allitterazioni, il contrario fra gli opposti, Charlie Mingus, il jazzista dell’allitterazione. Woody Allen, “Hannah e le sue sorelle”.

Il caso, vendicativo e dispettoso, rimpiombò a schiaffeggiarmi con quei suoi enormi palmi e mi sbattè sulla faccia Bach, Beethoven e soprattutto tutto il complesso sistema sonoro di John Cage. Fece in modo che le mie convinzioni inciampassero nuovamente, questa volta in Orazio e la sua “ruota della vita” (Nihil novum sub sole, la maledetta ciclicità che già aveva intuito 2000 anni fa), nell’infinito/finito Aleph di Borges, in Tom Robbins e i Velvet Underground, nella teoria degli opposti come regolatori del mondo e in quella dell’ottava nota: do, re, mi, fa, sol, la, si e poi di nuovo do ma in tonalità diversa! La schizofrenia come rappresentante nel campo della patologia, del concetto di opposto. Chuck Palaniuck ed Erasmo da Rotterdam. Quel mafioso di Berlusconi e Machiavelli. Charlie Parker e Bud Powell, geniale schizofrenico! Nel silenzio e nell’eterno ritorno e nella ciclicità, dove tutto gira in continuazione per non morire o impazzire o per avere almeno l’illusione di vivere, nel nulla e nella pienezza che si cela dietro al non detto, nella letteratura di Hemingway dove si vede emergere solo la punta dell’iceberg, nelle albe tibetane grazie alle quali i vecchi saggi dimostravano come giorno e notte, luce e tenebre fossero in realtà la stessa cosa, schizzi disegnati dalla stessa matita genialoide. Tutto torna, un pò diverso rispetto a prima ma forse neanche tanto!
Tutto questo lo avevo nella mente ma non sono mai riuscito a scriverlo ne tantomeno a creare una musica. Martin Hannett che registra il silenzio e 4’ 33” di Cage, tutto forse è già accaduto e tornerà ad accadere. Allora la casualità che ormai ci aveva preso gusto nell’aiutarmi attraverso l’umiliazione, mi fece leggere Vonnegut e incontrare finalmente espresso il concetto di quarta dimensione del tempo.
Il cammino sembrava già scritto, ormai ero fuori di me perchè perdevo il controllo sulle contingenze e cercavo di tradurre i messaggi del destino. Senza esito. Mi sciolsi in un anfetaminico piacere quando su tutti arrivò lui, l’inuperabile e unico, colui che canta l’uomo in tutti i suoi aspetti, Walt Whitman. “Tutto ritorna come le stagioni ritornano”. Dopo aver letto questa frase, “Foglie d’Erba” diventò per me un modo per conoscere me stesso. Il poeta della vita e della morte, del diseredato e del facoltoso, è stato colui che mi ha salvato la vita. Grazie a lui andò definendosi sempre più chiaramente, il filo che legava le mie esperienze e la gente che leggevo o ascoltavo o incontravo. O meglio non si definì un bel nulla, ma capii che fra tutti loro vi era un nesso inconscio che il mio cervello non riusciva a decifrare.
Fu il diluvio.

Hemingway, per anni il mio preferito, che mi fece viaggiare con un pulmino rosso su e giù per la costa atlantica spagnola finendo poi a Pamplona, per il solo desiderio di vedere la morte negli occhi durante una corrida, la beat generation, Ginsberg, Cassady, Burroughs, la summer of love e la summer of hate, la musica della west cost, da Chet Baker a Neil Young fino ai Love e Artur Lee quasi vinto dalla leucemia in un palazzetto dello sport di Firenze tanti anni fa. I Love che nella mia esperienza sono indivisibili dagli haiku di Basho. L’avanguardia musicale di New York, il punk e i tre accordi del Blues. Il santo Blues di Bo Diddley, John Lee Hooker, Robert Johnson, Willie Dixon, Otis Rush, Muddy Waters, Howin Wolf, Lightin’ Hopkins, Jimi. Le droghe che aprono le coscienze e William Blake, i Doors, Aldous Huxley e la funzione eliminativa del nostro cervello. Che vogliono dire queste coincidenze, questi incroci involontari fra il conscio e l’inconscio? Fra la mia vita vissuta e quella già narrata? Cosa vuole dire questo metalinguaggio involontario? Questa musica che si fa largo a gomitate fra le pagine dei miei libri e nelle vite degli uomini?

Perchè mi accorgo (senza volerlo ma avendone un fottutissimo bisogno), che Lester Bangs, il miglior critico musicale di sempre, il mio preferito, casualmente l’ultima cosa che ho letto (subito dopo Sartre!), dichiari che “La Nausea” è in assoluto la cosa migliore mai scritta da un uomo? Perchè Lester parla di nichilismo esistenziale proprio quando mi sentivo così? Perchè tutto è così perfettamente in ordine, perchè tutto segue una logica infallibile ma che non capisco? Cosa avete da dirmi? Cosa devo capire di me stesso?


Poi ovviamente lui, il vagabondo del Dharma, Kerouac che arrivò proprio quando non sapevo più cosa fare e mi fece capire che in fondo tutto questo non è importante, perchè l’unica cosa che importa veramente è andare, andare sempre senza mai fermarsi. Per uccidere la morte. Il male di vivere, sbattersi da una parte all’altra del continente sperando che ansia e dolori non ti inseguano lungo il cammino. Arrivò “Blank Generation” e capii che impostori fossero stati i Sex Pistols ma anche che Richard Hell non sarebbe mai stato nessuno senza i Count Five, i Kingsman e senza le “Illusioni Perdute” di Balzac, che il “vuoto” non era un concetto negativo ma uno spazio libero dove scriverci su. Uno spazio da riempire. Il vuoto che si oppone alla pienezza vivendo armoniosamente insieme a lei. Tutto sembra “(ri)tornare” rispondendo ad una logica si stralunata ma rigorosa, infallibile e indecifrabile.


mercoledì 1 dicembre 2010

"Quando si basta a se stessi si raccoglie un frutto maturo: la libertà"

A volte sono portato a vedere la mia vita, questa cosa così misteriosa e senza senso, come una parete opaca e larga sulla quale è stato composto un mosaico bellissimo. Ecco la mia vita è quella parete e quel mosaico è il suo significato.
Purtoppo però il mosaico è stato ricoperto da una vernice bianca avorio che non lascia più vedere la complessa eleganza, il buon gusto, le linee decise, i colori vividi del mosaico.
Poi ci sono le casualità.
Le casualità in questa parete, sono le parti in cui la vernice si scrosta, lasciando intravedere cosa sta sotto, ossia stralci di verità. Le casualità bellissime che ci mandano messaggi difficili da interpretare ma che se ci riuscissimo, potrebbero illuminarci il cammino, spesso scialbo, banale, insopportabile. Così da riuscire a sentirsi qualcosa di diverso rispetto a marionette inanimate nelle mani del destino.