mercoledì 9 febbraio 2011

Per te che ancora amo.




Salvador, oh Salvador.
Strade come vene varicose, spazzatura come grumi di sangue rappreso. I tuoi palazzi in bilico lungo i pendii scoscesi che arrivano al porto. La tristezza dei tuoi bambini, coi loro occhi grandi, malinconici, vuoti perchè non sanno più dove guardare. Smilzi ed affamati, con le braccia rachitiche rivolte verso il mio viso, il palmo proteso al cielo, implorando un soldo. Non sai mai se per la droga o per il cibo.


Salvador, oh Salvador.
Lontano ricordo di epopee di zucchero e cacao, cosa ne hai fatto dei tuoi figli? Quel che ne resta oggi, fra case diroccate, tetti di eternit e facciate cadenti, buche nella strada e puzza di piscio, sembra essere una donna distesa sull'asfalto dopo esser stata violentata.
Salvador, oh Salvador.
La bellezza degli edifici del Pelourinho, della cattedrale blu, del contrasto fra i rossi brillanti, gli azzurri turchesi, i rosa pallidi e l'ocra terra, non sembra cancellare le urla degli schiavi che venivano qui torturati pubblicamente. Qui giacciono ancora i loro cadaveri, dopo tanti secoli, proprio qui sotto il mio culo bianco.
Salvador, oh Salvador.
Non dimenticare che negli anfratti sotterranei del tuo mercato artigianale morivano, affogati dalle alte maree, gli schiavi i stipati peggio che bestie. Peggio della Monsanto, peggio delle galline che frantumano insieme alle ossa per farne nuggets da fast food. Schiavi in attesa di essere venduti al primo fazendero che faceva una buona offerta. Non dimenticare Salvador che furono loro a costruire le tue belle chiese, senza poi neanche avere il diritto di entrarci.
Salvador, oh Salvador.



La tua storia triste di sfruttamento e decadenza, risorge, si prende una rivincita sui torti subiti, nei vicoli del centro della città alta, fra sorrisi variopinti e facce ruvide. Dreadlocks e solchi profondi, sorrisi immensi e passi di danza di un'eleganza indescrivibile, fluttuante, di una forza travolgente primordiale. Ossa che si scaldano. Salvador tu rinasci ogni giorno nella musica, nel suono dei tamburi che vagabondeggiano, nelle processioni di batterie dove centinaia di persone serpeggiano fra le stradine senza mai smettere di danzare, inseguendo i musicisti che giocano a fare i pifferai con una massa informe di topi. La musica, Salvador, lenisce il dolore della povertà, ti fa sentire meno fame.
Salvador, oh Salvador.
Terra di tamburi perpetui, ogni pertugio si riempe di ritmo. Non un solo angolo della città vecchia è lasciato senza. Terra d'Africa in Brasile di terreiros dove i Pai dos Santos cominicano con le Orixás, dove Exú fa da messaggero dei drammi dell'uomo, dove i bar si chiamano "Dio è fedele", dove sui camion appaiono scritte "Io conduco, Dio dirige". Dire sincretismo mi sembra poco quando lo respiri.
La facciata ammuffita di una chiesa guarda la scalinata che le è di fronte, ricolma di gente dopo un concerto. Chi vestito di stracci e chi con maglie firmate come a voler prenderne le distanze. Culi che si muovono a velocità incredibli, sembrano voler allontanare, scacciare i dolori come mosche.



Salvador, oh Salvador.
Gli xilofoni in legno lucido, lattine di birra che diventano strumenti per tenere il ritmo, le tue belle donne grassissime e lucide che anticamente erano i motori della società, e che continuano ad esserlo, con le loro polpette di acarajè fritte nell'olio di palma. Terra di musica e ritmo, cuore pulsante del Brasile, colori brillanti pastello, sangue vivo che scorre sopra quallo putrefatto, occhi lucidi e pupille dilatate, custodi di notte che dormono durante il proprio turno.