venerdì 29 ottobre 2010

Cominciare a lavorare in un bar di una spiaggia brasiliana a 30 anni.

Vedersi dal di fuori, vedere un bamboccio irrequieto e inanimato. Vedersi andare per le strade con la testa bassa, la gente e la vita che scorre di fianco, solo una scenografia mal fatta. L'aura persa, spaurito e malinconico, tirarsi uno schiaffo da solo. Rialzare la testa e riguardare dritto negli occhi le persone. È questo quel che ci vuole. Svegliarsi.
Ho già un piano e qualcosa mi dice che andrà bene. Basta solo ributtarsi a capofitto. Vitelloni e polveri rosse e fitte che si creavano in cucina mentre il muratore tagliava grossi mattoni di cotto. Incuranti di tutto, gli inquilini mangiavano gamberi e bevevano da abbondanti caraffe, un vino bianco squisito. Pensai a quella ragazza che si cagò addosso la prima sera che andava a letto con un tipo. Pensai che mi stavo allontanando dalla gente, perchè rinchiuso in un egoistico ma corretto tentativo di autoanalisi.
La sera andammo in un posto che aveva tutte le caratteristiche e l'atmosfera di un raduno di beatnik. Mancavano Ginsberg e Kerouac, ma c'era una batteria frizzante e una chitarra divina.
Tornammo a casa felici. E ci imbattemo per la prima volta nelle nostre vite in un tentato suicidio.
Nessuna città è più letteraria di te, mia adorata Barcellona, nessuna più di te sa raccontarci così tante storie.

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